Ho spesso riflettuto, per via del mio lavoro, sulla parola “minimal” cercando di capirne il significato profondo. Un percorso per nulla facile perché l’idea di minimal è stata smontata e ricostruita nel nostro immaginario attraverso una sapiente opera di comunicazione.
Mi sembra quasi di rivedere la commedia in tre atti di Oscar Wilde “L’importanza di chiamarsi Earnest” (non è un errore di battitura ma un gioco di parole: earnest significa onesto ma viene pronunciato come il nome Ernest), dove un tale Jack Worthing si fa chiamare, quando si trova in città, col nome Ernest per poter mantenere una doppia vita: da Jack è un tranquillo tutore di campagna; da Ernest è un dissoluto ricco cittadino. Quando si innamora della giovane Gwendolen Fairfax, questa ricambia il suo amore ma a patto che il suo nome sia Ernest, visto che questo nome le genera una “vibrazione” irresistibile.
Ecco, io in questa commedia vedo la storia della parola “minimal”.
Lo stile minimal è nel nostro immaginario grazie alle pubblicazioni che troviamo facilmente in edicola e si occupano di design e di arredamento. A questo stile è associato sempre un ambiente molto pulito, spigoloso, a volte un po’ freddo, ma è veramente questo il significato di questo termine?
Io credo ci sia da fare una distinzione di fondo tra il minimalismo inteso come “ritorno al necessario” e minimalismo come corrente artistica ed architettonica (minimal art, termine coniato nel 1965).
Iniziamo da quest’ultima. Il minimalismo nell’arte e nel design ha avuto come spunto di ricerca un processo di riduzione della realtà, di impersonalità, di freddezza emozionale, puntando l’enfasi sulla oggettualità e fisicità dell’opera. Quindi un processo dove è l’opera al centro, fredda e distaccata dal mondo emozionale che è la vita reale.
Da questo processo sono venuti fuori, nel design, prodotti lineari, freddi, distanti dalla vita normale di ciascuno di noi. Chiunque veda un progetto dove il minimalismo è portato al massimo della sua espressione, viene normalmente colpito da quello che mi piace definire “effetto Venezia”, cioè quella sensazione che ci dice “è bellissima ma non ci abiterei!”. Perché succede questo? Semplicemente perché alla base del minimalismo c’è l’impersonalità, il non appartenere a nessuno, l’essere distante; e chi di voi vorrebbe vivere in una casa in cui si sente sempre “ospite” perché sono gli oggetti a farla da padrone?
Allora c’è da capire per quale motivo lo stile minimalista si sia così diffuso ed abbia tanta eco. La risposta è più semplice di quello che si pensi: gli oggetti minimal sono più facili da produrre, quindi tutte le aziende hanno spinto e spingono per questo tipo di prodotti, senza fronzoli e di colori standard; in questo modo stanno facilmente sul mercato senza spendere troppo in produzione. Mi verrebbe da dire: finché c’è minimal c’è speranza!
In realtà la prima definizione (che ho dato poco fa) mi sembra molto più interessante a livello progettuale. Il minimalismo sarebbe da interpretare rispetto a ciò che è necessario all’interno di uno spazio affinché questo possa essere accogliente come una casa deve essere. L’idea di necessario non è da percepire come una proposta di sacrificare i nostri spazi o le nostre comodità ad uno stile di vita francescano, ma semplicemente avere, con gli oggetti che arredano i nostri spazi, un rapporto più umano, di utilità che vada anche oltre la mera funzione, ma che possano essere in relazione con noi, in qualche modo.
Un esempio facile a riguardo mi viene pensando al minimalismo giapponese ed al concetto wabi-sabi: nell’immagine di questi spazi o oggetti non c’è mai quella percezione del distacco e della fisicità dell’opera, anzi, gli spazi e gli oggetti sono molto personali, umani, caldi ed accoglienti.
Questo è il tipo di ambiente che piacerebbe a chiunque, perché personale, adattato alle nostre esigenze, familiare.
Possono queste due idee di minimalismo convivere?
Come accade nel finale della commedia di Oscar Wilde, due personaggi molto diversi (entrambi si spacciavano per Ernest) alla fine scoprono di essere fratelli, sposano le rispettive fidanzate e tutto finisce bene.
Forse è proprio questa la via (in medio stat virtus), scoprire e gestire una soluzione in cui elementi minimali vengano affiancati ad elementi più caldi e personali; è una scelta che impone un po’ di coraggio rispetto agli standard cui siamo abituati, ma sicuramente è molto più interessante.
Un mobile minimal in una sala da pranzo in cui troneggia il vecchio tavolo della nonna, finemente restaurato, credo sia un’immagine affascinante per tutti. L’importante è trovare il giusto equilibrio.
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Complimenti Angelo per il tuo articolo. Effettivamente il minimalismo dà quell’impressione di essere, come hai scritto tu, sempre ospiti però hai ragione, si possono affiancare elementi minimal a qualcosa di più “caldo e personale”, ed avere un risultato moderno e interessante. Complimenti ancora.
Stefano
Grazie mille! Sono convinto che una buona educazione al “bello” ed al design debba partire da una capacità di lettura di ciò che ci viene “consigliato”. La capacità di discernimento tra quello che ci viene “imposto” e ciò che ci piace veramente ci salverà da un futuro monotono… e, come disse Dostoevskij, “la bellezza salverà il mondo!”
Bell’articolo.. Anch’io trovo difficile che la “freddezza” del design minimalista possa coincidere col “calore” accogliente di una casa. Però il minimalismo giapponese riesce a completare quest’unione.. Davvero interessante!
BOW OF MOON, Fashion Blog
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Complimenti per il post, interessantissimo! 🙂