In un altro articolo ho parlato del fatto che il minimalismo, così come viene definito dalle riviste che si occupano di design, è, molto spesso, una spinta necessaria alle case di produzione per poter arrivare a grandi numeri lavorando relativamente di meno. Non è una critica per forza negativa, piuttosto una constatazione del fatto che, sicuramente, ad un’azienda, fortemente automatizzata nella sua linea di produzione, costerà molto meno produrre prodotti lineari, senza fronzoli e con colori standard piuttosto di sviluppare un prodotto molto complesso a livello di lavorazioni. Quello che mi sono sempre chiesto è perché, accanto a questo tipo di produzione, non siamo riusciti a tenere vive quelle capacità produttive artigianali capaci di lavorazioni complesse ma stupende.
Forse è proprio in questa domanda la sfaccettatura negativa del “minimalismo” nel design. Quello che si legge analizzando i prodotti degli ultimi dieci o quindici anni è una rincorsa verso la linearizzazione e la perfezione delle linee che tende ad annullare il nostro, personale, rapporto con l’oggetto.
Circa quattro anni fa iniziai ad appassionarmi ad un concetto giapponese che ritengo molto emozionante e, per quanto si possa dire, non molto lontano da quella che è stata la nostra cultura riguardo gli oggetti fino a una trentina d’anni fa. Questo concetto è conosciuto come wabi sabi.
Wabi sabi è un’esperienza estetica attraverso un concetto astratto a cui non siamo più abituati, ma, intuitivamente, lo conosciamo e riconosciamo sempre. Ma andiamo per passi.
Il termine wabi deriva dal verbo wabu, che significa “languire”, e dall’aggettivo wabishii che esprime solitudine, perdizione, sventura. Wabi esprime una bellezza descrivibile in termini di umiltà, asimmetria e imperfezione; Wabi indica una condizione emotiva interiore e soggettiva.
Il termine sabi fa riferimento alla transitorietà della vita, alla solitudine, corrisponde alla calma, all’isolamento, alla malinconia nonché alla profonda e quieta dolcezza che accompagna questi stati d’animo.
Il binomio “wabi sabi” ha tre definizioni che vanno associate e comparate per poterne capire il significato profondo:
- wabi sabi è la bellezza delle cose imperfette, temporanee ed incompiute. È la bellezza delle cose umili e modeste (Koren L., 2002)
- Il wabi sabi è un intuitivo apprezzamento della transitorietà della bellezza del mondo fisico, che riflette l’irreversibile flusso della vita nel mondo spirituale. È una raffinata bellezza che risiede in ciò che è modesto, rustico, imperfetto o addirittura decadente, una sensibilità estetica che trova una melanconica bellezza nella transitorietà di tutte le cose (Juniper A., 2003)
- wabi sabi è dunque la bellezza delle cose appassite, erose, ossidate, graffiate, intime, ruvide, terrose, evanescenti, incerte, effimere. È una forma di bellezza che supera la dicotomia tra bellezza e bruttezza e tra l’ordinario e lo straordinario (Sartwell C., 2006).
Credo sia facile intuire cosa mi abbia tanto affascinato di questi concetti. Il fatto che sostituiamo continuamente quello che usiamo solo perché leggermente rovinato, scalfito, graffiato, non fa altro che allontanarci dalla realtà delle cose, ci allontana dalla consapevolezza che il tempo passa e questo non è un male. Invece tendiamo a nascondere i segni del tempo, credendoci immuni al suo scorrere, e lo facciamo sia col nostro corpo che con i prodotti che ci accompagnano nella vita. Ma è veramente giusto separarsi da un oggetto solo perché graffiato o rovinato? O quello che per altri è un graffio per me potrà essere un documento, un racconto di una parte della mia vita?
L’oggetto “wabi sabi” per eccellenza è la tazza da tè, quasi deformata dalle migliaia di mani che le hanno impugnate, temprate da tutto il calore dei tè che hanno contenuto. Quando si rompeva una di queste tazze venivano spesso ricomposte usando l’oro come collante. Una scelta molto interessante perché la scelta dell’oro non era fatta solo in base alle sue caratteristiche termiche o di incollaggio, bensì l’oro veniva usato affinché la “rottura” divenisse la parte più preziosa della tazza, elevando l’imperfezione ad opera d’arte, a storia, a documento.
Negli ultimi anni il design si è reso conto della spinta verso quella che viene definita “obsolescenza programmata” degli oggetti, operata dalle aziende che hanno solo da guadagnare dal fatto che le cose siano sostituite in un tempo accettabile. Questa presa di coscienza ha permesso un’inizio di indagine verso prodotti che invecchino e con i quali ciascuno di noi possa instaurare un rapporto emotivo che permetta l’allungamento della vita del prodotto stesso.
Questo processo tende a riavvicinare il prodotto alla vita del proprietario, utilizzando materiali naturali che hanno un normale decadimento di cui vengono valorizzate le imperfezioni. Quanti di noi si ricordano un vecchio tavolo o mobile posseduto dalle nostre famiglie? E quanti se ne ricordano per via di qualche segno, rottura o graffio? Insomma, questo concetto, che sembra così lontano, in realtà accompagna tutti noi in quanto tutti soggetti al tempo che passa. Rifiutare l’ineluttabile scorrere del tempo è solo una forzatura dettata dal consumismo, nessuno di noi è perfetto e non saremo giovani per sempre, non accettare questo non ci permette di capire il grande valore della vita.
Come disse la grande Anna Magnani ad un truccatore:”Non togliermi neppure una ruga. Le ho pagate tutte care!”
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